Sclerodermia, una malattia sconosciuta

Sclerodermia, una malattia sconosciuta

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L’esordio

Comincia tutto con un lieve dolore al dito indice della mia mano destra.

Inizialmente, non ci faccio troppo caso, “è soltanto un fastidio transitorio”, penso tra me e me. La mia soglia del dolore è piuttosto alta e continuo a vivere le mie giornate evitando di ascoltare quello che il mio corpo sta cercando di dirmi.

«Shhh», gli ripeto, «taci e non rompermi. Non romperti.»

E invece, continuo a sentire male, ogni giorno di più. Dopo qualche tempo, il mio polpastrello inizia a sbucciarsi come una banana lasciando scoperta una piccola porzione di pelle viva.

Osservo il dito, rosso in cima e sempre più dolorante. Il male arriva ad essere insopportabile, soprattutto quando vado a letto. Non posso più ignorare l’appello silenzioso e virulento del mio corpo. Ma io insisto, non ho nessuna voglia di andare dal medico per un dito sbucciato. Mi imbottisco di antidolorifici illudendomi di mettere a tacere quel dolore lancinante.

«Dai, davvero? Cosa sei, ipocondriaca? Stai esagerando!»

Mi metto una garza e la fisso con un cerotto. Certo che la mia pelle poteva scegliere un posto migliore per sfaldarsi, le dita le usiamo tutti i giorni. L’indice poi. Che scocciatura!

Al tempo, lavoro come barista e le mani sono uno dei miei strumenti più importanti.
E anche se non facessi la barista, non sarebbe proprio una pacchia avere il polpastrello senza il primo strato di pelle. Lo guardo, me lo strapperei con i denti dal male che mi fa.

È di un rosso vivo, pulsante e il dolore mi arriva alla testa tormentando il mio sonno e cercando costantemente attenzione nel modo più odioso: grida e pulsa con una violenza che non ricordo di aver mai provato, almeno mai in maniera prolungata.

Un dolore acuto, costante, che divora tutta la mia attenzione e le mie energie.

La diagnosi

Mi decido ad andare dal medico.
Inizialmente, si pensa a un’infezione, ma il dito dovrebbe essere caldo.
Invece, è freddo come lo sono anche le altre dita.

Strano, perché è giugno e il caldo è soffocante, quasi come la mia irritazione, che cresce insieme al sospetto che la cosa non sia così semplice.

La paura si insinua tra i pensieri e il subconscio, trascinandomi in una palude fredda e rossa.

Alla piaga che mi accompagna ormai da settimane, se ne aggiunge un’altra al secondo dito. Ommioddio! Comincio a preoccuparmi. Finalmente, arrivano le analisi che mi sono state prescritte durante la visita.

I medici che mi hanno vista non erano convinti dell’ipotesi infezione, anche se non sapevano con certezza che cosa fossero quelle piccole dolorosissime piaghe in cima alle mie dita.

Ritorno dal medico con i miei esami.
I miei anticorpi si sono ribellati e hanno cominciato a nutrirsi di me invece che difendermi.

Mi sto automangiando.

Ecco cosa mi stava dicendo il mio corpo:
«Ehi, stai subendo un ammutinamento! Le tue guardie hanno deciso di rivoltarsi contro di te. E adesso sono guai! Se non mi ascolti, urlerò più forte. Se non fai nulla, mi ammalerò così dovrai starmi a sentire.»

Sclerodermia

Il medico mi guarda con un’aria che non so interpretare, ma che non promette niente di buono.
“Sono nella merda”, penso senza sentire nulla se non una stretta allo stomaco che si dilata fino al petto.

«Signorina, lei è affetta da sclerodermia.»
Sclerodermia? Ma che diavolo significa?
Vado a cercare nel mio archivio mentale.
Ai tempi del liceo, adoravo il greco e capisco il significato letterale della parola che mi hanno appena appioppato. Ha un che di affascinante e mostruoso al tempo stesso.

Non conosco alcuna malattia del genere.

Chiedo lumi e mi spiegano che la sclerodermia – nome tecnico per quella che ha colpito me “sclerosi sistemica a variante limitata” – è una malattia autoimmune, reumatica e progressiva, che colpisce la pelle, i tessuti connettivi e, in alcuni casi, gli organi interni, cuore, polmoni, esofago.

In quel momento, è una vera fortuna che sia seduta. Le gambe diventano molli, le braccia formicolano come quando ci dormo sopra.
La testa si svuota e il mondo si sgretola in un marasma silenzioso.

«Quali sono le cause?», chiedo quando riesco di nuovo a parlare.
«L’eziologia non è certa», mi rispondono.

Anche qui, le mie memorie di greco mi vengono in aiuto: i medici non conoscono le cause di questa patologia.

Diventare di pietra

Passano i giorni e io mi sto trasformando in pietra.

A riguardare ora il passato, credo che la “malattia”, se così si può definire questa reazione del corpo, questa sua inascoltata richiesta di aiuto, sia sorta per difendermi dal mondo.
Dal male di vivere che riempiva le mie giornate.
Ma di questo non ho voglia di parlare qui.

Ora, dopo quattordici anni dalla diagnosi, sto molto meglio, come mi hanno confermato i reumatologi che mi seguono. Quando mi hanno visitata verso la fine dell’anno scorso, erano increduli: i sintomi della malattia erano radicalmente regrediti. Mi sono sentita così leggera che per un istante ho creduto di prendere il volo davanti ai loro occhi.

Non credo sia una coincidenza. Non credo più alle coincidenze da un sacco di tempo.
Penso sia piuttosto una magica commistione di fortuna, se vogliamo definirla così, atteggiamento mentale e comportamenti che hanno aiutato il mio corpo a rinascere in un certo modo.

Ho smesso di difendermi dal mondo. Ho lasciato andare il passato doloroso e ammuffito e mi sono tuffata con determinazione ed entusiasmo nella mia vita. E le cose hanno cominciato lentamente a migliorare, a trasformarsi in quello che prima non mi permettevo neanche di immaginare.

Ho abbandonato la mia corazza e ho iniziato ad amare.
Anche la mia vulnerabilità.
Le pietre che mi tenevano giù hanno preso a frantumarsi fino a diventare polvere.
E sono volate via lasciandomi nuda e inerme a godere della luce del sole, del vento, della pioggia.
Del dolore e della gioia. Ogni giorno. Anche se è un percorso faticoso, che richiede un’immensa dedizione. Anche se il rischio di cadere è sempre sotto i miei piedi a ricordarmi che lasciar andare è un allenamento costante.

Sono grata al mio corpo che mi sostiene nonostante tutto il male che gli ho fatto, che ancora, inavvertitamente o per noncuranza, continuo a fargli, anche se di sicuro in misura molto minore.
Sono grata al mio corpo, che insiste a dimostrarmi il suo amore incondizionato.

Io, che il mio corpo l’ho odiato e maltrattato per tanto tempo, con una ferocia imbarazzante.
Ora, non posso che ringraziarlo e cercare di dargli quello che merita. Di darmi quello che merito.






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